La bomba intelligente
FABIO FALABELLABreve digressione sulla guerra infinita tra Israele e Palestina, dove è sempre più difficile restare umani
Furono i Turchi Selgiuchidi a conquistare nel 1914 l’antica Palestina ed a regnarvi ininterrottamente fino al termine della Prima Guerra mondiale, quando, messo in crisi da frizioni endemiche interne e tallonato dalle Grandi Potenze occidentali imperialiste e colonialiste, l’Impero Ottomano si dissolse in poco tempo al pari di quanto accadde, in Europa, a quello Austro-Ungarico. Per quasi mezzo millennio, nella terra promessa dei profeti ebraici dell’Antico Testamento, le popolazioni di lingua ed etnia araba e ciò che restava dopo decine di diaspore indotte di quella ebraica convissero fianco a fianco e senza colpo ferire, o quasi, a fronte di una conflittualità mai del tutto sopita ma che pure non era stata foriera dei conflitti cruenti e violenti che la Storia dell’umanità aveva visto scatenarsi in altre parti del mondo, dal Vecchio al Nuovo Continente. E la Terra Santa, memore del sangue versato dai crociati partiti alla conquista del sacro Graal, che fecero scempio di musulmani per secoli e secoli, rimase tutto sommato indenne ed immacolata, avulsa da combattimenti tenuti altrove, in quanto periferica nello scacchiere globale rispetto ad altri luoghi ritenuti strategici per il gioco al massacro di competizione delle egemonie e di controllo delle rotte commerciali indispensabili allo sviluppo capitalistico. In quel tempo lunghissimo, Ebrei e Arabi, Ebrei e Palestinesi, vissero in pace o, almeno, in rapporti di buon vicinato, di quelli non perfettamente amorosi ed armonici che potrebbero riscontrarsi tra famiglie diverse in un condominio. Tutto cambiò a ridosso della Seconda Guerra mondiale, quando gli eserciti di Stati Uniti e Gran Bretagna, desiderosi di infliggere ai loro rivali teutonici un colpo mortale, cominciarono a finanziare e foraggiare contemporaneamente milizie arabe ed ebraiche per alimentare la guerriglia anti-tedesca, favorendo al contempo flussi di immigrazione massiccia che conducevano gli Ebrei, vittime dello sterminio nazista dell’Olocausto e dei pogrom, abituali e ad esso precedenti che si erano verificati in gran parte dell’Europa Orientale, verso la Palestina, destreggiandosi così in un pericoloso esercizio di Risiko che aveva alla base la garanzia di concedere ad entrambe le fazioni oggi in contesa, Ebrei ed Arabi, uno Stato indipendente e sovrano. Da allora, tante, troppe cose sono cambiate, lungo un filo dipanatosi così in fretta ed in maniera imperscrutabile e complicata che troppo difficile ed ardimentoso, vacuo probabilmente, sarebbe il tentativo, cui peraltro abdichiamo consapevolmente e volentieri, di riavvolgerlo in questa sede. Proposito che ciò nondimeno, ahinoi, sarebbe necessario ed irrinunciabile per provare a spiegare, o quantomeno a raccontare scevri da visioni ideologiche e strumentalmente interessate e fuorvianti, quanto succede di drammatico in questi giorni, e non è la prima volta, e non sarà l’ultima, temiamo e supponiamo, tra la Striscia di Gaza e Tel Aviv, in uno di quei sud del mondo che tanto ci stanno a cuore, tra i più martoriati e flagellati del pianeta. Perché quel timido e speranzoso fiotto iniziato con poche decine di Ebrei che, nel solco tracciato da David Ben Gurion, giunsero in Palestina dalla Russia a fine ‘Ottocento, che le Potenze occidentali favorirono anche a mo’ di lavacro per ripulire le proprie coscienze sporcate dal non aver alzato un dito per provare ad impedire la follia della soluzione finale di sterminio teorizzata nel “Mein Kampf” da Hitler e poi progettata ed attuata dalle SS, divenne a poco a poco un fiume in piena incessante, cospicuo e travolgente, seguendo il corso del quale e nella fede del dominio del popolo eletto milioni di Sefarditi e Aschenaziti – vale a dire gli Ebrei provenienti dalla penisola iberica e quelli di lingua e cultura yiddish, discendenti delle comunità ebraiche tradizionalmente stanziatesi dal Medioevo in poi nella valle del Reno prima e, successivamente, nell’Europa centrale ed Orientale, ndr – si riversarono in Medio Oriente. In quello che poi è divenuto con un colpo di spugna che ha cassato ogni regola del Diritto Internazionale, dall’uccisione del diplomatico e filantropo Folke Bernadotte, assassinato a Gerusalemme il 17 settembre del 1948 dal gruppo sionista Lehi, più noto come la Banda Stern, che non accettava la Risoluzione Onu di due Stati per due popoli, lo Stato di Israele. Uno Stato che, ai giorni nostri, viene considerato malamente e a torto una democrazia compiuta, spesso presa ad esempio per l’efficienza organizzativa, si pensi alle lodi incensate ed incensanti ricevute per i risultati ottenuti con la campagna vaccinale contro il Covid 19 da cui, dimenticando volutamente, cittadini arabi, considerati di serie b e di serie c, sono stati scientemente esclusi, e persino additato come modello nei manuali di Scienza Politica ad uso nelle nostre università. Uno Stato che, si badi bene, è intriso di ideologia sionista, vale a dire quella teoria messa in pratica che nega in modo assoluto e perentorio la coesistenza con gli Arabi, il cui vessillo, con Israele che si espande da un capo all’altro di Sinai e Giordano, ne è l’emblema esplicativo. Un sistema politico profondamente in crisi, come dimostrano le ultime, ripetute e necessarie tornate elettorali forse non risolutive, in cui le voci del dissenso sono messe ai margini, alla Knesset – il Parlamento israeliano, ndr – nella società, sulla stampa, dove i progressisti perdono di peso, importanza ed attrattività mentre i fondamentalisti con le trecce che affollano il muro del pianto ed i coloni armati che sparano sui ragazzini che titano pietre la fanno sempre più da padrone. Una potenza di fuoco, guerrafondaia e militarista, con i servizi segreti e l’esercito tra i più preparati ed equipaggiati del globo, con decine di migliaia di riservisti e soldati professionisti, unico Paese del Medio Oriente ad essere in possesso, grazie alla Francia e con buona pace dell’Iran dell’Ayatollah Khomeini, di armi atomiche. Uno Stato razzista e criminale, forse colpevole di un vero e proprio genocidio ben peggiore di quello patito dagli Armeni ad opera dei Turchi, resosi responsabile di soprusi e privazioni, vessazioni, violenze ed ingiustizie quotidiane a danno di un intero popolo tenuto prigioniero da decenni, se si vogliono tenere in conto, in merito, numerosi e diversi pronunciamenti in materia dell’Assemblea delle Nazioni Unite, ché non ci arrischieremmo noi a proferire tanto. Giova ricordare, in proposito, e soffermandosi solo per un attimo sul concetto spesso travisato e volutamente mal interpretato di sionismo, artatamente e specularmente confuso in senso ribaltato con quello di antisemitismo, provando a non scivolare lungo questo crinale sdrucciolevole e pericoloso, benché cosci che la nostra posizione netta ed in un certo senso partigiana possa essere volutamente attaccata da più parti e a più riprese non a giusta ragione, giova ricordare, dicevo, che furono proprio gli Ebrei stanziali di Gerusalemme, quelli che abitavano da generazioni in un piccolo insediamento della città eterna vivendo, poverissimi secondo il disposto biblico, di carità internazionale, a dichiararsi anti-sionisti ed a lamentarsi agli inizi del secolo scorso con una petizione formale ed una lettera inviate al sultano di Costantinopoli per l’invasione incontrollata e fastidiosa, così dicevano, dei loro confratelli e correligionari. È qui che affonda le radici la questione annosa ed irrisolta della proprietà terriera, sovente usata come grimaldello per pronunciamenti giurisdizionali ed azioni militari a danno dei Palestinesi, da cui, del resto, prende le mosse la sollevazione dei giorni scorsi, trasformatasi velocemente in una guerra chiamata Intifada da una parte (in Arabo, sollevazione), e operazione di polizia e di sicurezza dall’altra, benedetta dal premier israeliano neo e rieletto Benjamin Netanyahu. Mercanti da sempre, rassicurati dai dominatori ottomani ed inconsapevoli di un futuro che non avrebbero saputo, potuto ed osato immaginare, neppure nel più macabro degli scenari ed angoscioso e tenebroso dei risvolti, i Palestinesi, discendenti dei Filistei delle lettere di San Paolo apostolo, che dimoravano in Palestina da millenni ed ininterrottamente, alcune famiglie in verità, cominciarono a vendere terreni ai nuovi arrivati Ebrei, in un clima inizialmente sostenibile ed in proporzioni accettabili, sulla scorta della dimensione multietnica ed antinazionalista propria ed imposta dall’Impero Turco. Alcune di quelle terre, di quelle case, sono esattamente al centro della contesa odierna, reclamate ad uso proprio dagli Israeliani sebbene insistano nel quartiere di Gerusalemme est, da sempre riservato alla popolazione araba, a fronte di un pronunciamento di un tribunale ebraico che ne rivendica il diritto e l’uso esclusivo. Come se non bastassero i tentativi ripetuti e riusciti, anche grazie al contributo della passata amministrazione statunitense guidata da Donald Trump, di fare di Gerusalemme, culla delle tre grandi religioni monoteiste e dichiarata capitale indivisibile di due Stati sovrani, Israele e Palestina, la sede degli uffici e dei palazzi governativi dei soli Israeliani, alla luce della cacciata lenta ma inesorabile degli Arabo-Palestinesi che vi abitano. Da queste complessive ragioni e da queste motivazioni specifiche e contingenti nasce e prende spunto, traendone, forza, vigore e, a nostro avviso, legittimità la rivolta che sta divampando nella Palestina occupata, a Gaza e in Cisgiordania e nelle città israeliane da alcuni, terribili giorni. In questo senso, il gruppo islamico e ritenuto terrorista che prende il nome di Hamas è solo il detonatore e, purtroppo, l’unico strumento di una opposizione rabbiosa, e non potrebbe essere altrimenti, alla violenza indiscriminata, razzista e genocida perpetrata da più di settant’anni da uno Stato, quello di Israele, a danno e contro un popolo vessato, malmenato e rinchiuso in gabbie a cielo aperto, dove imperversano elicotteri ed aerei a bombardare e caterpillar a distruggere e demolire case, col tonfo rimbombo del passo militaresco dei soldati occupanti. Uno Stato colpevole, per di più, di aver creato il mostro di Hamas a sua immagine e somiglianza, come da evocazione delle Sacre Scritture, sostenendolo con finanziamenti occulti, in parte proventi pure di fondi dei servizi segreti statunitensi, si legga in merito il libro splendido ed illuminante di A. Cockburn, “Le amicizie pericolose” sui rapporti indicibili ed inconfessabili tra Cia e Mossad – l’intelligence israeliana, ndr – per costruirsi a proprio uso e consumo il nemico adatto da combattere che giustificasse le azioni di rappresaglia, come avviene in queste ore con il lancio dei razzi cui si risponde con le bombe, le bombe intelligenti lanciate per colpire bersagli militari e che, invece, finiscono sempre per far crollare palazzi, asili, scuole ed ospedali con decine, centinaia, migliaia di bambini, donne, uomini ed anziani vittime innocenti. Senza dimenticare che, mentre Hamas e la Jihad islamica crescevano in termini di consensi, risorse ed equipaggiamenti, intanto, nella società palestinese, considerata da sempre e avvedutamente tra le più laiche, emancipate e secolarizzate dell’intero Medio Oriente, veniva creato il vuoto con i tristemente noti assassini mirati e gli imprigionamenti ingiustificati ed ingiustificabili, senza processo: basta tenere a mente, in proposito, quanto accaduto a Marwan Barghuthi, successore in pectore di Yasser Arafat, sicuramente un moderato, letteralmente sparito dalla scena e tenuto per anni, bendato e torturato, in una prigione israeliana. Di modo che, e questo è ovvio, si esacerbassero le contraddizioni e le contrapposizioni in un processo inesorabile di estremizzazione delle posizioni in campo di cui patisce gli effetti, naturalmente, anche la popolazione israeliana e che ha giovato solo ai governati di Tel Aviv e all’industria bellica del comparto militare pubblico e privato. Con la Palestina occupata, Striscia di Gaza e Cisgiordania, che non viene riconosciuta a livello internazionale, che, di fatto, non esiste, e cito un post pubblicato via social da un’amica di questo giornale, ma è il posto giusto per Israele per sganciare bombe, quelle intelligenti, di cui sopra. Quelle bombe che, in virtù di una narrazione distorta, distonica ed inaccettabile cui si prestano anche i media di casa nostra, più che intelligenti sono scaltre, tanto da essere ritenute indispensabili e dovute, quali doverosa risposta alla presunta ed indimostrabile, a meno di essere in mala fede, aggressione nemica. In un rapporto sperequato di martiri da una parte e dall’altra, per quanto i morti contino tutti ed ognuno ed abbiano la stessa dignità, rappresentando un fardello per le nostre coscienze, che vede comprensibilmente le vittime palestinesi almeno decuplicate rispetto a quelle israeliane, nonostante il prestigioso Corriere della Sera si affanni in un occhiello di un articolo comparso in prima pagina nei giorni scorsi a segnalare tre morti in Israele mentre in Palestina ce n’erano già circa un centinaio: uno più, uno meno, cosa cambia? Forse la foto che pubblichiamo a corredo di questo editoriale, un murale apparso su di una casa a Napoli, la mia città, da sempre sensibile a questi temi e preoccupata per questa guerra infinita, costituisce la raffigurazione più emblematica, che piaccia o no, delle forze contendenti in campo: una donna che si difende con l’acqua, di cui i Palestinesi sono privati per il controllo asfissiante delle fonti del Giordano da parte dello Stato di Israele, gettandone un secchio ai militari che le invadono l’abitazione, assaltandola. All’orizzonte, al netto dei tentativi della diplomazia egiziana e delle consorterie occidentali e della Lega Araba, non si intravede una soluzione, forse perché, secondo uno slogan che ha risuonato in infiniti cortei ai quattro angoli della Terra, non ci sarà mai pace senza giustizia e, da una parte continuano i soprusi, dall’altra, animi di un’umanità provata e resa psico-labile dal frastuono incessante degli ordigni, sempre più esacerbati e disperati, non sanno immaginare altro tramonto che il martirio. Ciò che avvilisce maggiormente, in questo scenario, è che per chiunque e tutti sarà sempre più difficile restare umani, come invano si augurava fino a dare la vita per tale auspicio irrealizzato e, forse irrealizzabile in Palestina, il cooperante italiano Vittorio Arrigoni, morto strangolato ormai dieci anni fa, il 15 aprile 2011, prestando soccorso nell’operazione di peace-keeping internazionale in favore dei pescatori poverissimi della Striscia di Gaza denominata “Freedom flottiglia”.